
Festival della giustizia riparativa
Bassano del Grappa, 22-23-24 ottobre
Dal 22 al 24 ottobre, nel cuore di Bassano del Grappa, si è tenuto il Festival della Giustizia Riparativa. Non un semplice convegno tra addetti ai lavori, ma un prezioso esercizio collettivo di memoria, coscienza civile e responsabilità. Ad accoglierlo, la quiete contemplativa di Villa Angaran San Giuseppe: più che un edificio, un pensiero architettonico tradotto in gesto civile. Un luogo dove l’incontro non si celebra, ma si esercita. Dove la cultura non si espone, ma si pratica.
In questa cornice sospesa tra pietra e memoria, il Festival ha posto una domanda semplice, eppure cruciale: è possibile mettere in dialogo la vittima di un reato con chi quel reato lo ha commesso?
Un interrogativo che scuote le fondamenta della giustizia tradizionale e interroga la coscienza collettiva: se il diritto separa, la giustizia riparativa tenta di ricomporre; se il tribunale giudica, la parola condivisa tenta di comprendere.
Tra i presenti anche l’Associazione Spondé, nelle giornate del 22 e 23 ottobre: la prima dedicata alle testimonianze dell’incontro tra vittime e responsabili della lotta armata, la seconda rivolta all’esperienza spagnola post-ETA. Due ferite diverse, una stessa domanda: come si fa a convivere con ciò che non si può cambiare?
22 OTTOBRE – LA TESTIMONIANZA DELL’INCONTRO. VITTIME RESPONSABILI DELLA LOTTA ARMATA A CONFRONTO.
urante la prima giornata, una voce ha attraversato il tempo come un monito: quella di Manlio Milani, testimone e vittima della strage di Piazza della Loggia.
Brescia, 28 maggio 1974. In piazza si radunano centinaia di persone per una manifestazione antifascista, animate dalla convinzione che alla violenza si debba rispondere con la forza della democrazia. Alle 10:12 un ordigno occultato in un cestino dei rifiuti arresta il respiro della piazza, consegnandola a un silenzio che ancora oggi pesa come pietra. Nove morti, più di cento feriti. Una foto diventa storia: un uomo in ginocchio tra i corpi dilaniati. È Manlio Milani. A terra, tra quei corpi, giace sua moglie Livia Bottardi. Pochi attimi prima si erano separati per caso; uno sguardo da lontano, un cenno lieve, e poi il boato.
“La violenza è la distruzione totale della tua umanità”, ricorda oggi Milani. “Improvvisamente non hai più nulla. Tutto ciò che eri, da quel momento, non esiste più”.
Da allora, il suo compito è testimoniare, comprendere, ricomporre: non solo per fare luce su una strage rimasta a lungo nell’ombra di quella stagione torbida nota come strategia della tensione“, ma soprattutto per restituire un senso umano a ciò che l’odio avrebbe divorato.
“Cosa è accaduto? Cosa spinge una persona a uccidere? Perché alcuni hanno scelto la lotta armata e io no? Chi sono coloro che si arrogano il diritto di togliere la vita? Sono mostri o semplicemente uomini?” – domande che lo hanno accompagnato come un tarlo, o forse come un metodo.
“Per ricostruire me stesso, dovevo capire il perché”, afferma Milani.
È da questo travaglio interiore che nasce il suo avvicinamento alla giustizia riparativa: una giustizia che non cerca punizione, ma ricomposizione.
“La sofferenza può diventare terreno comune, spazio di dialogo, possibilità di prospettiva”.
In questa visione, l’altro non è più nemico, ma riflesso di una possibilità umana da interrogare. Non si tratta di giustificare, ma di comprendere; non di dimenticare, ma di restituire senso a ciò che sembra irrimediabilmente perduto.
“La giustizia tradizionale”, afferma Milani, “non vede le persone”, vede solo i ruoli: vittima e colpevole. La giustizia riparativa, invece, tenta di restituire umanità a entrambi.
Dalle sue parole si apre un varco verso l’altra prospettiva della vicenda storica. In questo spazio interviene Ernesto Balducchi, ex membro dei Comitati Comunisti Rivoluzionari, una delle molteplici formazioni che animarono la complessa rete della lotta armata italiana. La sua voce restituisce l’esperienza dell’“altra parte”: di chi, per anni, si è trovato sull’altro versante del conflitto politico e sociale, sospeso tra ideali radicali e la necessità di confrontarsi con la propria umanità.
Balducchi individua nell’incontro con l’altro il fulcro della trasformazione – quell’elemento che, per lui e per altri esponenti della lotta armata, si rivelò decisivo. Centrale in questo processo fu la figura di don Luigi Melesi, cappellano del carcere in cui era recluso, che in un periodo in cui ogni dialogo con le istituzioni appariva impossibile seppe riconoscere l’umanità di quelle persone interrotte. Non li giudicò solo come colpevoli da punire, ma come uomini e donne da ascoltare, portatori di una dignità che sopravviveva alla loro caduta. Quegli incontri, quei dialoghi, favorirono una lenta ma profonda metamorfosi interiore: Balducchi giunse a comprendere l’impatto delle proprie azioni e a confrontarsi con le proprie responsabilità.
L’accostamento delle testimonianze di Milani e Balducchi rivela allora la potenza di una giustizia che non si esaurisce nella netta separazione dei ruoli, ma fiorisce nello spazio in cui ferite e responsabilità si incontrano. In questo dialogo fragile e al contempo straordinariamente intenso, l’uomo ritrova la possibilità di ricomporsi. E, con lui, la dignità dell’umano.
23 OTTOBRE – UNO SGUARDO ALLA GIUSTIZIA RIPARATIVA IN SPAGNA ATTRAVERSO “GLI OCCHI DELL’ALTRO”
La seconda giornata ha aperto uno squarcio su una delle ferite più profonde della storia recente spagnola: il terrorismo dell’organizzazione indipendentista basca Euskadi Ta Askatasuna (ETA)ETA e il difficile cammino verso la riconciliazione.
L’intervento, tenuto da Elena Maculan, professoressa del Dipartimento di Diritto Penale e Criminologia dell’Università UNED di Madrid, ha offerto una riflessione sul lungo percorso che ha condotto la società spagnola dall’esperienza della lotta armata alla ricerca di pratiche di riconciliazione e responsabilità condivisa.
Fondata nel 1958 durante la dittatura franchista, l’ETA nacque come movimento di resistenza al regime e di rivendicazione dell’autonomia del popolo basco, evolvendo tuttavia, nel corso dei decenni, in un gruppo armato di matrice terroristica, che anche dopo il ritorno della Spagna alla democrazia proseguì la lotta attraverso la violenza e l’intimidazione. Tra il 1958 e il 2018, anno del suo scioglimento ufficiale, le azioni dell’ETA causarono la morte di oltre ottocento persone.
La risposta iniziale dello Stato spagnolo si strutturò attorno a una rigorosa logica retributiva: rafforzamento dell’apparato repressivo, inasprimento delle pene, politiche di sicurezza centrate sul contenimento e sulla deterrenza. Tale approccio, tipico delle fasi post-conflittuali a forte componente securitaria, si tradusse così in una gestione eminentemente punitiva del fenomeno terroristico, privilegiando la neutralizzazione dei soggetti ritenuti pericolosi a scapito della comprensione delle dinamiche sottese di radicalizzazione.
A partire dal 2006, tuttavia, all’interno della stessa organizzazione armata si manifestarono fratture ideologiche significative. Una parte dei membri iniziò a prendere le distanze dalla strategia della cosiddetta “socializzazione della sofferenza” – espressione con cui l’ETA designava la propria intenzione di estendere il conflitto armato al corpo sociale nel suo complesso, colpendo non più soltanto obiettivi istituzionali o simbolici, ma anche la cittadinanza civile in modo indiscriminato. Il riconoscimento della deriva etica e politica insita in tale prassi generò, in alcuni militanti, un processo di riflessione critica volto a comprendere l’impatto delle proprie azioni violente e a ridefinire in chiave relazionale il rapporto tra colpa, responsabilità e giustizia.
In questo mutato scenario, nel 2011 prese avvio in ambito penitenziario un programma sperimentale di giustizia riparativa, finalizzato a promuovere incontri tra ex membri dell’ETA e vittime del terrorismo. L’iniziativa, coordinata da Esther Pascual, avvocata, docente universitaria e mediatrice penale, si configurò sin dalle origini come un percorso ad alta complessità emotiva e relazionale, ispirata ai principi del restorative dialogue e volto a promuovere la responsabilizzazione personale dei partecipanti attraverso un graduale processo di rielaborazione del danno arrecato in un contesto protetto e mediato.
Prima di accedere alla fase dialogica con le vittime, gli ex militanti furono coinvolti in un percorso preliminare di quattordici sessioni individuali, della durata di circa tre ore ciascuna. Tali incontri avevano lo scopo di favorire una presa di coscienza progressiva delle conseguenze personali e sociali delle azioni violente, preparando il terreno a un incontro riparativo.
Pascual sottolinea come una delle dinamiche più significative emerse nel corso degli incontri sia stata la reazione di sorpresa e disorientamento dei perpetratori di fronte all’atteggiamento non ostile delle vittime.
“Fu disarmante per loro”, racconta la mediatrice, “vedere l’umanità delle vittime invece che l’odio”.
Tale esperienza si rivelò catartica e trasformativa: di fronte alla possibilità di un dialogo autentico, molti sentirono l’esigenza di assumersi pienamente la responsabilità delle proprie azioni e di confrontarsi con le conseguenze della violenza inflitta. Alcuni manifestarono esplicitamente il desiderio di ottenere il perdono; altri, consapevoli dell’imperdonabilità dei crimini commessi, avvertirono comunque il bisogno di confrontarsi con il proprio di colpa e di responsabilità verso le vittime e la comunità.
Dal canto loro, le vittime acconsentirono alla partecipazione non in una prospettiva di perdono morale, ma con l’intento di comprendere e rielaborare il significato dell’esperienza subita. Per alcune, l’incontro rappresentò un’occasione di conoscenza e di ascolto; per altre, un atto pedagogico e civile volto a trasmettere ai propri figli e alla società un messaggio di pace, sottraendosi alla logica della vendetta e alla riproduzione della violenza.
La giustizia riparativa, in questo senso, si configurò come uno spazio discorsivo di umanizzazione reciproca, nel quale la parola si sostituisce alla logica sanzionatoria tradizionale, divenendo veicolo di riconoscimento e verità.
Emblematica, in questo quadro, è la testimonianza di Maixabel Lasa, vedova di Juan Mari Jáuregui, politico socialista basco assassinato da un commando dell’ETA nel 2000. Più di dieci anni dopo, uno dei suoi assassini chiese di incontrarla. Nonostante il dolore, Maixabel accettò.
Durante uno dei primi colloqui, l’offensore dichiarò di non provare odio personale nei confronti della vittima: “eseguivo gli ordini”, ammise, descrivendo se stesso come un esecutore incaricato di portare a termine un compito. Lei rispose con parole destinate a rimanere nella memoria collettiva: “Preferisco essere la moglie di uomo ucciso che la madre di un assassino”.
Il dialogo tra i due si sviluppò nel corso di più incontri, segnati da un progressivo riconoscimento reciproco e dalla difficile ricomposizione di una verità condivisa. Anni dopo, durante una commemorazione pubblica, lo stesso ex militante tornò per rendere omaggio alla memoria di Jáuregui. Quando Maixabel gli chiese: “Ti ricordi cosa ti dissi la prima volta che ci siamo visti?”, rispose: “Sì, ricordo. Oggi ti dico che avrei preferito essere Juan Mari piuttosto che essere me stesso”.
L’esperienza spagnola mostra come la giustizia riparativa non rappresenti un’alternativa indulgente al paradigma retributivo, ma ne costituisce la sua riflessione critica dall’interno. Essa non elimina la colpa, bensì la riconfigura in termini di responsabilità dialogica, restituendo al soggetto agente la possibilità di comprendere il proprio agire, non solo nella dimensione giuridica del dover rispondere, ma in quella etica del rispondere all’altro.
Il programma attuato da Esther Pascual e la testimonianza di Maixabel Lasa ne esprimono il significato più profondo: l’incontro tra vittima e offensore diviene luogo di decifrazione del vissuto altrui, in cui la verità non si impone come esito giudiziario, ma prende forma attraverso un percorso di reciproco riconoscimento, in cui la parola non cancella il danno, ma lo restituisce alla sfera dell’umano.
OLTRE LA PENA
In un contesto storico e culturale segnato da una crescente tendenza alla semplificazione e dalla pervasività di retoriche punitive, le giornate di Bassano del Grappa hanno rappresentato un prezioso crocevia di esperienze, memorie e riflessioni capaci di interrogare criticamente il paradigma giuridico tradizionale e di aprire prospettive orientate a una concezione relazionale della giustizia.
Le voci di Manlio Milani, Ernesto Balducchi, Maixabel Lasa ed Esther Pascual – pur eterogenee per origini, contesti socio-politici e traiettorie biografiche – hanno contribuito a delineare la possibilità di uno spazio condiviso di elaborazione del conflitto, fondato sull’ascolto attivo e sull’apertura a un modello di giustizia altra. Una giustizia che eccede i confini del sistema retributivo e la logica compensativa della vendetta, e che si declina come esercizio di prossimità, nel quale l’incontro tra chi ha ferito e chi ha perduto sospende la rigidità dei ruoli giuridici per dischiudere uno spazio che nessuna pronuncia giurisdizionale può integralmente contenere: quello dell’altro che chiama e che invita al reciproco riconoscimento. Un laboratorio di civiltà e ricomposizione, in cui il conflitto non si cancella, ma si attraversa insieme, e la ferita sociale, lungi dall’essere rimossa, nel paziente esercizio dell’ascolto, può lentamente ricomporsi, passo dopo passo, parola dopo parola.


